TREVISO - Sono troppo pochi quei due anni e 4 mesi inflitti dal giudice di primo grado all’imprenditore 69enne di San Biagio accusato di aver ripetutamente molestato, anche con atti di vera e propria violenza, una dipendente. Ritenendo quindi la pena troppo lieve la Procura ha presentato ricorso in corte d’Appello mettendo nero su bianco le vessazioni inflitte alla donna costretta a vivere in un continuo stato di tensione, a doversi inventare scuse per poter lavorare il più possibile da casa rimanendo così alla larga dall’ufficio, a benedire anche i giorni di convalescenza ottenuti dopo un incidente stradale perché le avrebbero evitato di incrociare il suo datore di lavoro. È arrivata poi al punto di presentarsi in ufficio con vestiti ampi e coprenti nella speranza di non solleticare gli impulsi sessuali del titolare. Tutto poi sfociato in una preoccupante forma di depressione e in problemi anche a livello coniugale.
LA STORIA
Il pubblico ministero non concorda con la sentenza emessa dalla corte perché ritiene un errore aver considerato di lieve entità la condotta definita criminosa posta in essere dall’imputato. Il pm ricorda i fatti accaduti tra il 2022 e il 2023, quelli che poi hanno portato al processo quando l’uomo Costringeva la vittima In plurime occasioni, con condotta violenta, contro la volontà della ragazza, a subire atti sessuali toccandola nelle parti intime o strusciando i genitali contro il suo corpo. Per ribadire che il concetto di “lieve entità” degli atti commessi non può essere tenuto in considerazione nel formulare la condanna, la Procura sottolinea come sia stato “ampiamente dimostrato il cospicuo affastellamento di atti sessuali di variabile intensità che la vittima era costretta a subire a cadenza pressochè quotidiana dal parte del proprio titolare”. La vittima, in quanto dipendente e subalterna, si quindi trovata in una posizione di completa sudditanza psicologica.
GLI EFFETTI
E questa situazione di perenne insidia per il pubblico ministero ha avuto conseguenze devastanti sfociate in problematiche psichiche di vario tipo come l’insorgenza di una forma di depressione, di disturbi alimentari e del sonno. E abbia provocato il cambiamento di stili di vita oltre che, come detto, anche del modo di vestire. Fino alle inevitabili ripercussioni sulla vita coniugale e nei rapporti col marito. La vittima è stata anche costretta a ricorrere al centro di Salute Mentale di Villorba dove le è stato diagnosticato un disturbo post-traumatico da stress. Per difendersi le ha provate tutte. Pur di stare lontana dal titolare cercava in tutti i modi di lavorare in smartworking, approfittando delle limitazioni imposte dal Covid, arrivando anche mentire sulla positività dei tamponi. Messe tutte queste assieme, per il Pm appare evidente che cambiamenti così radicali nella propria condotta di vita e nel proprio lavoro non possono essere considerati lievi, né gli atteggiamenti del datore di lavoro possono essere ridotte a semplici goliardate. E questi soprusi, accusa, erano noti a tutti i vertici aziendali che però non sono mai intervenuti per trovare una soluzione. E infine la Procura sottolinea come il collegio di giudici, nelle motivazioni della sentenza, abbia parlato di un continuo stillicidio di approcci sessuali da parte dell’imputato e abbia fatto riferimento alla sudditanza psicologica provata nei suoi confronti dalle impiegate evidenziando come queste donne abbiano tentato di limitare i contatti con l’uomo per difendersi dalle sue molestie. Però tutto questo è scomparso nel momento in cui si è arrivati a formulare la sentenza di due anni e 4 mesi. Il pm invece ne aveva chiesti sei. Da qui la richiesta alla Corte d’Appello di rivedere quanto deciso in primo grado, eliminando le attenuanti e condannando l’imputato non a sei anni di reclusione ma a sette.