Spiare i messaggi su WhatsApp, la Cassazione: si rischia fino a 10 anni

Il reato è di accesso abusivo a sistema informatico

giovedì 5 giugno 2025 di Federica Pozzi
Spiare i messaggi su WhatsApp, la Cassazione: si rischia fino a 10 anni

ROMA - «Violare lo spazio comunicativo privato di una persona, abbinato ad un telefono cellulare nella sua esclusiva disponibilità e protetto da password, integra il reato di accesso abusivo a sistema informatico». A stabilirlo la Corte di Cassazione, che ha rigettato il ricorso presentato da un uomo condannato dalla Corte d’Appello di Messina lo scorso dicembre - a sei mesi di reclusione - perché aveva estratto alcuni messaggi dai telefoni dell’ex moglie per portarli in tribunale per la separazione.

Una condanna che comprendeva anche il reato di violenza privata per un altro episodio.

Ma rimaniamo sul primo reato che prevede una pena massima di 10 anni di reclusione. Due i telefoni della donna dai quali l’imputato avrebbe estratto chat di whatsapp e registro chiamate. E anche l’applicazione di messaggistica istantanea, sostengono gli Ermellini, può essere considerata un «sistema informatico». 

LA DENUNCIA

La storia tra i due era diventata burrascosa già da diverso tempo e la donna aveva denunciato, a marzo 2022, atteggiamenti molesti e ossessivi del marito. Tra questi, il controllo del suo cellulare. Lo accusava infatti di «averle controllato il telefono dal quale aveva estrapolato alcuni messaggi da una chat con un collega di lavoro, inviandoli ai suoi genitori, per sostenere la tesi di un rapporto sentimentale fra i due». Poi, in un’integrazione di querela del marzo 2023, la donna aveva denunciato «di aver scoperto che il suo ex marito aveva estratto, da un telefono cellulare che utilizzava per ragioni di lavoro e che non trovava più da tempo, diversi screenshot dal registro chiamate e dalla messaggistica, consegnandoli al suo legale, il quale li aveva prodotti in sede di giudizio civile, ai fini di addebito della separazione». Non solo, a detta della donna, «nella memoria depositata dal legale del suo coniuge, erano inclusi anche screenshot estratti da un altro telefono cellulare, a lei ancora in suo, e che non comprendeva come ciò fosse potuto accadere in quanto entrambi i cellulari erano protetti da password». 

LE MOTIVAZIONI

Per la Cassazione non c’è dubbio che l’uomo abbia «arbitrariamente invaso la sfera di riservatezza della moglie attraverso l'intrusione in un sistema applicativo ben suscettibile di essere ricondotto nell'alveo della tutela riservata al sistema informatico». Gli Ermellini hanno inoltre chiarito che il reato di accesso abusivo a un sistema protetto da password si verifica non solo con l’accesso in sé ma anche con il «mantenimento nel sistema posto in essere non solo (come è ovvio) da un soggetto non abilitato ad accedervi, ma anche da chi, pure essendo abilitato, violi le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso, ovvero ponga in essere operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle per le quali l’accesso è consentito».

In altre parole, se la persona proprietaria del telefono protetto da password dà a una terza persona il permesso per accedere per un lasso di tempo limitato ma questa persona continua a mantenere l’accesso, è comunque penalmente perseguibile. E lo è anche se, pur avendo il permesso dal proprietario, va a “curiosare” nelle chat o in altre informazioni che non aveva il permesso di visionare.


SISTEMA

I giudici della Corte di Cassazione hanno poi chiarito che anche l’applicazione whatsapp deve essere ritenuta un «sistema informatico», perché «è un’applicazione software progettata per gestire la comunicazione tra utenti attraverso messaggi, chiamate e videochiamate, utilizzando reti di computer per trasmettere i dati, combinando hardware, software e reti per offrire il suo servizio».

Non è poi da sottovalutare il fatto che i telefoni fossero protetti da password - e questo è stato uno dei punti di ricorso della difesa, insieme alla presunta tardività della denuncia sporta dalla donna, che sosteneva non fossero protetti da alcuna sequenza. Scrivono i giudici: «Sussiste, nel caso di specie, il reato contestato, poiché la protezione del sistema, nel quale l‘imputato si è trattenuto abusivamente, era stata assicurata attraverso l'impostazione di una password. 
 

Ultimo aggiornamento: 09:16 © RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci