Frena i facili entusiasmi Giorgia Meloni nel giorno in cui l’Europa scorge una luce in fondo al tunnel dei dazi. E intanto squilla di continuo la cornetta di Palazzo Chigi. Nelle ultime ore si è confrontata con alcuni dei principali leader europei. Fra gli altri, Emmanuel Macron e Ursula von der Leyen. E nei giorni antecedenti al week end c’è stato un altro contatto con Donald Trump. È convinta che un’intesa sulle tariffe americane al 15 per cento sia una via di uscita onorevole dalle tensioni commerciali in corso fra Bruxelles e Washington. «Aspettiamo di vedere tutto l’accordo, stiamo lavorando» spiegava nelle scorse ore ai ministri che la cercavano in cerca di lumi, man mano che le agenzie di stampa si riempivano di lanci su una possibile intesa al 15 con la Casa Bianca. «Attualmente è la prospettiva più realistica se si vuole chiudere un accordo» riconosce la presidente del Consiglio nei colloqui privati. Due settimane prima che la clessidra si svuoti. E ogni granello conta in questo countdown.
Dietro le quinte l’Italia porta avanti una trattativa serrata con i partner europei e la Commissione. Obiettivo: provare a sfilare dalla mannaia americana i settori che più di tutti impatterebbero sulle produzioni nazionali. Come il farmaceutico e gli alcolici, ma anche il caseario, punte di lancia dell’export tricolore oltreoceano. Sul primo fronte a Palazzo Chigi si dicono cautamente ottimisti. Se si chiudesse al 15, ed è questa la soluzione che sembra profilarsi all’orizzonte, «sarebbe un successo» spiega chi segue da vicino il dossier, «tenendo conto che all’inizio i dazi dovevano essere del 40».
Delicata la situazione della filiera vinicola italiana. Già perché non si esclude che solo in un secondo momento, magari dopo l’estate, si trovi un compromesso per salvaguardare il comparto dalle tariffe americane. Più difficile che i vini e i liquori italiani, come del resto le produzioni europee, siano esentati nell’immediato. Sono ore di attesa e di linee telefoniche incandescenti. I contatti fra Meloni e Trump «sono molto frequenti» fanno sapere dal governo. Mentre a Bruxelles l’Italia veste ancora una volta i panni del pompiere e cerca di spegnere le proposte “incendiarie” di un asse capitanato dalla Francia. Che ancora ieri, mentre si cominciava a parlare di un accordo alle viste al 15 per cento, premeva per far scattare subito il meccanismo di anti-coercizione.
In sostanza la proposta francese si può riassumere così: qualificare subito la lettera di Trump sui dazi al 30 per cento come «coercizione» economica per avviare la controffensiva. Che in un secondo momento, con il via libera degli Stati membri Ue, prevede misure durissime in risposta: limitazioni agli appalti pubblici per le imprese a stelle e strisce, restrizioni alle importazioni e multe per le big tech americane. Perfino la revoca dei diritti di proprietà intellettuale. Nei fatti, una contro-dichiarazione di guerra. Pugni sul tavolo per trattare, secondo l’asse francese. Ma sul punto l’Unione si divide. Raccontano Meloni irritata per quella che a Palazzo Chigi vivono come «ennesima fuga in avanti di Macron» dovuta a «ragioni di consenso interno». E all’irritazione sono seguiti i fatti.
IL FRENO ITALIANO
Nelle scorse ore il potente capo di gabinetto di von der Leyen, il tedesco Bjoern Seibert, ha incontrato i diplomatici dei Paesi membri a gruppi da tre. Una seduta intensiva di “confessionali” per chiedere a ognuno la linea del governo sulla proposta di Parigi: siete d’accordo ad attivare subito il meccanismo di anti-coercizione? Ovvero il “bazooka” europeo contro le imprese Usa? Dall’Italia è arrivato un secco “no”. Per il momento non se ne parla. Altro conto è mettere sul tavolo la “pistola” dei controdazi da 93 miliardi di euro, pronta a scattare il 7 agosto. Ovviamente la speranza a Roma è che non serva toccare quel grilletto. E che nelle prossime ore, o giorni al massimo, si apra davvero uno spiraglio per chiudere sul 15 per cento con Trump.
Sarà un accordo «semi-definitivo», spiegano fonti di Palazzo Chigi. Più denso e intricato dell’intesa “di massima” raggiunta dal Regno Unito di Keir Starmer. Ma con la possibilità, in una seconda fase, di riaprire il negoziato su singoli settori. Tempo al tempo. Prima bisogna uscire dal tunnel.