Tutto è nelle mani, o meglio, nella penna, di Donald Trump. Con il 1° agosto, è arrivata l’ora X per far scattare i dazi per i partner commerciali degli Stati Uniti, tra accordi (il 15% per la Corea del Sud), rinvii “last minute” (altri 90 giorni per le trattative con il Messico) e minacce (al Canada che si è unito al fronte globale per il riconoscimento della Palestina). Tra le due sponde dell’Atlantico, la vigilia è trascorsa circondati dalle nubi di un’imperante incertezza sui termini dell’intesa. A Bruxelles, i funzionari Ue sono rimasti in stretto contatto con Washington e in fiduciosa attesa che il presidente degli Stati Uniti mantenesse gli impegni e apponesse la sua ingombrante firma in calce all’ordine esecutivo che, a partire da oggi, dovrà fissare al 15% l’aliquota “flat” per quasi tutto l’export europeo diretto negli Usa, alcolici compresi.
Anche perché la dichiarazione congiunta che dovrà mettere nero su bianco quanto concordato a voce nel golf resort di Turnberry, domenica scorsa, ancora non c’è; “prigioniera” del ping-pong negoziale tra la Commissione europea e l’amministrazione americana per definire i dettagli e ripianare incomprensioni e differenze di vedute. L’attesa potrebbe durare giorni, se non settimane. Ma, come ha ripetuto a più riprese l’esecutivo Ue, quel testo non ha in alcun caso valore giuridico vincolante.
Tradotto: Bruxelles si affida all’intesa politica siglata con stretta di mano e pollice a favore di telecamera da Trump e Ursula von der Leyen, sperando che, da oggi, si apra un nuovo capitolo nelle relazioni transatlantiche; senza minacce o contrapposizioni, ma mandando giù con una certa rassegnazione un’aliquota generalizzata del 15%. Quell’aliquota, almeno per ora, colpirà pure vino, champagne, liquori e whisky “made in EU”. Eccellenze che l’Ue ha provato tutelare durante tutto il negoziato (su spinta di Italia, Francia e Irlanda, che vi vedono dei campioni nazionali), ma per cui si andrà ai tempi supplementari, hanno chiarito da palazzo Berlaymont.
«Non ci aspettiamo che vino e alcolici saranno inclusi nella prima tornata di esenzioni», ha ammesso un portavoce della Commissione con un’espressione un po’ contorta: si continuerà, insomma, a trattare per strappare concessioni ulteriori. Discorso parzialmente diverso per la farmaceutica, per cui il prelievo è solo di poco rinviato: secondo Bruxelles, i dazi rimarranno a zero sui medicinali ancora per una settimana, salvo passare al 15% quando il dipartimento del Commercio dichiarerà chiusa l’indagine settoriale in merito. Tutto si muove sul filo del rasoio, e solo dopo aver visto il primo passo compiuto dagli americani, anche gli europei saranno disposti a passare dalle parole ai fatti: lunedì, «se tutto va secondo i piani», la Commissione congelerà - per un periodo iniziale di sei mesi -i controdazi su merci statunitensi per un valore complessivo di 93 miliardi di euro. Il tira-e-molla della vigilia, manco a dirlo, ha continuato a riguardare anche le regole sul digitale.
Nella sintesi dell’accordo pubblicata sul suo sito, la Casa Bianca aveva anche cantato vittoria, elencando chiaro e tondo tra i passi di lato di Bruxelles lo stop all’iniziativa Ue di introdurre un “fair share”, cioè un equo contributo a carico delle Big Tech per le grandi quantità di rete Internet occupata, da pagare agli operatori della rete telefonica. Una circostanza confermata indirettamente dalla Commissione. «Riteniamo che imporre una tale tariffa non sia una soluzione praticabile», ha precisato ieri un portavoce dell’esecutivo Ue, pur sottolineando che l’esenzione si applicherebbe universalmente, e non solo alle aziende Usa. E insistendo sul fatto che le istituzioni Ue e gli Stati membri continuano ad avere «il diritto sovrano di legiferare sulle attività economiche, comprese le infrastrutture digitali». Con il malcontento imperante tra i governi (che pure le avevano dato mandato di concludere l’accordo) e un Europarlamento che promette battaglia, dazi e passi indietro sulle regole Ue sono l’ennesimo fronte aperto per von der Leyen. Tra poco più di un mese,il 10 settembre, la presidente della Commissione inaugurerà il ritorno tra i banchi parlamentari con il discorso programmatico annuale all’Eurocamera di Strasburgo. E all’orizzonte, a meno di un mese dall’ultimo tentativo, prende forma una possibile nuova mozione di censura: ad avanzare la proposta, stavolta, non l’ultradestra, ma la sinistra radicale francese, che accusa von der Leyen di «aver accettato di sottomettersi agli Usa di Trump».